NIKE

La filosofia del fitness suggerirebbe di prendere le mosse direttamente dall’Étoile, ma farsi circa tre chilometri e mezzo a piedi, con tutto quello che si deve fare dopo, rischia di barattare la forma fisica con il defribrillatore.
E allora conviene rinviare la promenade lungo les Champs-Élysées e partire direttamente da Place de la Concorde, lasciando alla inclinazione di una eventuale accompagnatrice di scegliere il percorso intellettuale, che taglia all’interno des Jardin des Tuileries, ultima testimonianza del palazzo reale andato distrutto nel 1871 a seguito dell’incendio provocato dai dodici estremisti capitanati da Dardelle.
Se, di contro, dovesse prevalere la passione per lo shopping, la elegante e parallela Rue de Rivoli accenderebbe certamente gli entusiasmi di qualunque signora fosse in vostra compagnia.
La meta è le Carousel, per arrivare finalmente a mettere il naso nell’immenso cortile del Louvre, lasciato libero dalla distruzione delle Tuileries, ed oggi occupato dalle due piramidi invertite, eredità esoterica del Presidente Mitterand.
Sono stato al Louvre due volte, nella prima occasione ero adolescente, nella seconda più maturo.
Solo in tarda età ho scoperto la querelle sulle origini del nome.
La tesi più conosciuta lo fa derivare dal latino lupara, cioè “luogo abitato dai lupi”. Sauval sostiene derivi dall’antico termine sassone “leouar” che significava castello o fortezza. Altri ritengono che derivi dal termine “rouvre”, che significa quercia, dal bosco che lo circondava. Altri ancora riferiscono che il significato sia ascrivibile alla parola “l’oeuvre” (in francese il capolavoro), perché era il palazzo più grande della Parigi del XII secolo.
Sorvolando sulla disputa toponomastica il Louvre è universalmente riconosciuto come la culla di una quantità di bellezze dal valore incalcolabile.
Parlare di tutte non basterebbero mille pagine, scegliere le migliori sarebbe una hit-parade arrogante e iniqua.
Vado per emozioni.
È la prima che incontrai, ma non fu per questo che me ne innamorai.
Alta circa due metri e mezzo domina con la sua imponenza la enorme sala dalla quale si accede alla scalinata. Mi lasciò a bocca aperta così ampia, con quelle ali aperte pronte ad avvolgere l’universo, mescolando un sentimento di protezione, verso l’intera umanità, con una incredibile percezione di un “procinto di movimento” immortalato in una autentica ipostasi di uno “spiccar il volo”.
La Nike di Samotracia, la più bella scultura che abbia mai visto, della quale non oso immaginare la magnificenza se non avesse subito la mutilazione della testa e delle braccia.
E mentre mi cullo ad occhi chiusi immaginandomi ancora al suo cospetto, pensare che quel nome così aristocratico, che il titano Pallante e la ninfa Stige diedero a quella che divenne la dea della vittoria, è stato storpiato in un volgarissimo “naike”, anch’esso figlio delle orribili tendenze yankee che hanno fatto delle bellissime lingue classiche un museo degli orrori, trasformando media in “midia”, plus in “plas”, summit in “sammit”, mi fa venire una rabbia sorda e repressa, rassegnata da quanto stupidamente tali storture siano state accolte dalla cultura occidentale.

IL CIGNO DI UTRECHT

per l’eleganza con la quale si muoveva in campo in tutte le sue giocate.
Così fu definito Marco Van Basten, attaccante olandese che dalla fine degli anni ’80 ha imperversato, per tutto il decennio successivo, con le sue fantastiche imprese nel mondo del calcio.
Ha vinto tutto.
Tutto quello che poteva essere umanamente vinto con la sua squadra di club e quasi tutto con la nazionale olandese.
È considerato uno dei giocatori più forti della storia del calcio, per molti il centravanti più forte, sicuramente il più elegante.
Ma non è per le sue imprese pedatorie che oggi lo rammentiamo.
“Troppe partite, i giocatori giocano troppo e alla lunga non reggeranno fisicamente”.
Questa dichiarazione, resa qualche anno fa, quando era a capo del Dipartimento di sviluppo tecnico della Fifa, scatenò un putiferio e gli costò l’incarico.
Erano gli anni in cui l’avidità dei presidenti dei club, ma anche delle organizzazioni internazionali, muovevano per una moltiplicazione della gare per incassare maggiori diritti televisivi e nessuno doveva ostacolare tale progetto.
Quel processo che portò, come succede oggi, a giocare due partite a settimana, ha subito l’effetto prodromico delle dichiarazioni di Van Basten.
Per chi si interessa di calcio sono note le incredibili girandole di infortuni che investono attualmente il mondo del calcio.
Tra l’altro senza eventi traumatici evidenti o rilevanti, giocatori che si fanno male, anche gravemente, corricchiando o in allenamento.
Questo riferimento al rettangolo di gioco ci aiuta ad introdurre un tema ben più vasto che si riflette in comparti ben meno ludici della realtà sociale.
La inarrestabilità del business-show spiega i suoi effetti anche altrove.
Nel mondo del lavoro turni più massacranti per maestranze e dipendenti.
Fabbriche sempre aperte con turni quasi mai gratificati. Negozi aperti la domenica senza ferie o straordinari.
Dipendenti pubblici con il lavoro da casa che si somma a quello d’ufficio.
Ovunque c’è un padrone che vuole guadagnare di più ma pagare di meno.
Ma anche negli investimenti del pubblico e del para-pubblico.
Si chiudono, ospedali, presidi medici, tribunali, uffici del catasto, camere di commercio, sportelli di servizi, tratte ferroviarie o linee di autobus, in una drammatica corsa all’accentramento perchè rami secchi, non produttivi, con poche utenze, dimenticando che certi servizi non sono aziende, legate alla logica del profitto, ma presidi destinati a servire bisogni, in una Italia che è ancora delle municipalità, dei comuni, dei campanili, sparsi tra la dorsale appenninica e le valli alpine, tra le basse padane e le aree interne delle grandi isole. Vi vivono la stragrande parte degli italiani, quasi 50 milioni.
Possono davvero i soldi, la ricerca esasperata del guadagno stravolgere le regole immodificabili della vita?
Possono i soldi cancellare le regole di tenuta fisica di un giocatore, la insopportabilità della fatica di un operaio, di un impiegato, di una commessa?
Può il denaro farci dimenticare che anche il paesino di “roccacannuccia” ha bisogno, della strada, che vi arrivi e parta un autobus, di una guardia medica o di un posto di polizia, perchè il centro più vicino è a 40 km, ma un’ora di viaggio su una strada impossibile?
Se ci sono ancora oggi oppressori e oppressi a cosa sono servite le rivoluzioni per le quali tanto abbiamo sudato e faticato sui libri di scuola?
Questo rapporto dell’uomo così servile dinanzi al dio denaro c’è sempre stato?
Questa infernale macchina del guadagno è sempre esistita?
Dobbiamo forse tornare a una vita primitiva per riscoprire certi valori?
L’angosciante sensazione che nulla è mutato e nulla muterà a volte opprime.
A volte invece con piccoli movimenti riusciamo ad adattarci tra gli angusti e laceranti spigoli della caverna dell’esistenza illudendoci di stare comodi. Si chiama rassegnazione.

IL TEMPIO DEL WALZER

Seguo con puntalità il Concerto dei Wiener Philarmoniker da un cinquantina di anni, forse più, e ricordo direzioni eccelse come quella di Abbado che diresse a memoria e senza spartito.
Diversi anni fa, quando per la inaugurazione del ricostruito teatro veneziano la Fenice l’allora Presidente Ciampi volle che a capodanno il concerto ufficiale degli italiani fosse celebrato sulla laguna, la cosa mi indispettì non poco.
E non per esterofilia melomane (sindrome della quale invece soffro riguardo alla musica contemporanea) ma perchè, pur apprezzando il talento e le virtuosità della composizione classica italica, il concerto di capodanno è quello di Vienna.
Perchè è una questione di atmosfera, è questione di appropriatezza del genere musicale, di ambiente, di colori, di scenario.
A parte il verdiano “Brindiam” della Traviata (il cui significato autentico è però apparentemente allegro ma sostanzialmente drammatico) le note dell’Aida, di Và pensiero o del Nessun Dorma, ci azzeccano poco con la allegra festosità del capodanno cui invece le spumeggianti melodie straussiane rendono la sua giusta atmosfera.
E non tiriamo fuori, per favore, i temi di un inappropriato neo irredentismo scandalizzandoci per Radetzki o roba del genere.
Strauss (in questo caso tra l’altro il padre) era austriaco ed era naturale che celebrasse i miti del suo popolo, così come noi celebriamo i nostri, in Francia celebrano il galletto e Marianna, e in Inghilterra la Regina.
E poi il valzer è stata una vera rivoluzione di costumi, demolendo i moralismi dell’epoca che guardavano con scandalo ad un uomo ed una donna che danzavano abbracciati, adusi a quadriglie e minuetti in cui il contatto più carnale era in punta di dita.
Resta il fatto che certi eventi vengono celabrati in maniera adeguata in un solo modo, in un solo posto, in solo giorno e vi trovano così la loro naturale identificazione.
E allora così come il Carnevale è solo quello di Rio, per i ritmi, i costumi, i coriandoli, la sinuosità del samba, il Capodanno, per la maestosità della sala (che tra l’altro ho visitato), per l’eleganza del Musikerein, per la spettacolarità delle coreografie nei palazzi viennesi, per il carattere festoso delle melodie, è solo Vienna…il resto sono solo improbabili cover.

È NATA IL 31 OTTOBRE DEL 2005

e, oltre che a essere bellissima, con un destino felice, anzi felicissimo.
Oggi ha 16 anni e vive in Inghilterra dove sta frequentando un corso di studi molto particolare. Nonostante la giovane età già conosce il suo futuro e sa che farà un lavoro esclusivo e riservato a pochissimi.
All’età di 12 anni è stata insignita del collare del Toison d’oro, l’ordine più prestigioso esistente, anche più di quello britannico della Giarrettiera, fondato nel 1430 da Filippo III di Borgogna ed oggi diviso in due rami, quello Spagnolo guidato dai Borbone e quello austriaco al cui vertice ci sono gli Asburgo Lorena.
In Europa sono solo tre le fanciulle che sono nella condizione della nostra pulzella, si tratta di Vittoria di Svezia, Elisabetta del Belgio e Caterina Amalia dei Paesi Bassi.
E sti caxxi direte voi, ha avuto solo fortuna.
Sì è vero ma forse se la sta meritando.
A 14 anni, quale presidente del premio delle Asturie ha iniziato a tenere i suoi discorsi pubblici e parla perfettamente inglese, francese, catalano e inoltre riesce a farsi comprendere in italiano, arabo e cinese mandarino. Eccelle negli studi in tutte le materie, specie quelle attinenti una formazione umanistica-politica. Non credo che sia frutto solo di un impegno “matto e disperatissimo”, rinfrancato quotidianamente da un auto convincente “volli, sempre volli, fortissimamente volli”.
Forse ha le qualità che le servono a compiere il suo fato.
Vi presento Doňa Leonor, Principessa delle Asturie, primogenita di Filippo VI di Borbone e quindi, in virtù della legge semi-salica che ne regola il dettato costituzionale e in mancanza di un figlio maschio, destinata e diventare regina di Spagna.
Dopo Isabella II, che regnò dal 1833 al 1868, una donna tornerà sul trono di Madrid.
Nei commenti posto il breve video nel quale viene insignita del Toison d’oro.
P.S.: Voi direte “che fai? sei un socialista monarchico?” No, ma non posso ignorare che, dal dopoguerra ad oggi, la socialdemocrazia europea ha avuto modo di affermarsi con stabilità e di incidere con maggiore profondità nella sua stagione di riforme per creare una società evoluta, moderna e progredita, da Gonzalez e Zapatero in Spagna, Blair in Gran Bretagna, Di Rupo in Belgio, e ancora in Olanda, Danimarca, e infine con i paesi scandinavi di Olof Palme, più in paesi a guida monarchica che in quelli repubblicani.
Viva la Reina.

(video tratto dal seguente indirizzo youtube: https://youtu.be/8iVfodw_KX4)

NATO A LONDRA

l’8 gennaio del 1947, è paradossalmente scomparso due giorni dopo, il 10 gennaio, ma del 2016, a 69 anni a New York, dopo 18 mesi di guerra contro il male del secolo.
È stato da più fonti considerato il personaggio musicale più significativo del XX secolo.
David Robert Jones è stato un polistrumentista, compositore, cantante ma anche pittore e attore, ruotando a tutto tondo nel campo dell’arte.
Il suo successo e la sua lunga carriera sono testimoniate non solo dalle vendite strabilianti dei suoi dischi ma anche dalle risorse accumulate ponendolo, a detta di Forbes, tra i 5 artisti più ricchi del mondo.
Space Oddity, Fame; i suoi successi sono talmente tanti che provare a citarne qualcuno ha il sapore dell’insulto per quelli taciuti.
Ma bisogna celebrare il personaggio perchè il Duca Bianco, che ha cavalcato imperioso le praterie della musica senza temere di doversi adeguare al trascorrere del tempo e di sperimentare nuovi stili e nuove tecnologie affrontando la modernità con il suo intramontabile successo, non è uno dei più grandi: è lui, è fuori concorso e basta.
E allora mi piace ricordarlo con questo video, nel ricordo di un suo amico, un’altro grande, con il quale compose così, quasi per gioco, quella che è rimasta una hit impareggiabile.
La cantò in pubblico per la prima volta a Wembley, al Freddie Mercury Tribute Concert nel 1992, duettando con un’altra grande, Annie Lennox, e accompagnati dagli stessi Queen, orfani di Mercury.
La canzone, inizialmente chiamata People on Streets, è conosciuta con il titolo di Under Pressure.
Cantano David Bowie e Annie Lennox.

(Video tratto dal seguente indirizzo: https://youtu.be/fCP2-Bfhy04)

ERA IL 1962

e la USS Indipendence, una delle portaerei più grandi dell’epoca, si trovava a navigare al centro del Mediterraneo quando incrociò una nave che sembrava d’altri tempi.
Era un veliero con le armi spiegate che le si affiancò dolcemente.
– Chi siete? Identificatevi! – disse il colosso americano.
– Amerigo Vespucci, nave scuola della Marina Italiana – risposero dal veliero.
Ci fu un attimo di esitazione poi dalla portaerei dissero:
– Siete la nave più bella del mondo – e, sebbene avessero diritto di passare per primi, fermarono i motori per dare la precedenza alla nave italiana e permetterle di proseguire per la sua rotta accompagnando il suo transito con tre squilli di sirena in segno di ammirazione.
Da quel giorno in tutto il mondo, anche se le regole di navigazione recitano che una nave più piccola deve cedere il passo ad una più grande, è consuetudine che alla Amerigo Vespucci viene sempre data la precedenza accompagnando il suo passaggio con i tre squilli di sirena.
(Curiosità. La Amerigo Vespucci aveva una gemella, la Cristoforo Colombo, che fu varata nel 1928. Nel 1949 fu ceduta alla Russia a parziale ristoro dri danni di guerra. Assunse il nome di Dunaji (Danubio) e nel 1963 fu demolita per un incendio a bordo che la devastò.
Il 10 settembre del 1968 l’Amerigo Vespucci, al comando di Ugo Foschini, risalì e ridiscese solo a vela, e senza l’ausilio dei motori, il Tamigi fino a Londra mandando in visibilio i londinesi e regalando loro uno spettacolo che non si vedeva dai tempi di Nelson. “Quel comandante o è un pazzo, o è un grande marinaio”, titolarono i giornali inglesi che, ovviamente, optarono entusiasticamente per la seconda ipotesi.)

NE SONO 70 ED È UN GIUBILEO DI PLATINO

Era il 6 febbraio 1952 quando salì al trono, alla morte del padre, anche se fu incoronata il 2 giugno del 1953.
Fu un gioco del destino che si manifestò nelle vesti di una sottana made in Usa e borghese quanto basta per allontanare suo zio Edoardo VIII dalla corona inglese.
E fu così che giovanissima, quasi una ragazzina, sedette sul trono dello stato, tra quelli contemporanei, più antico e prestigioso del mondo.
Sulle bianche scogliere di Dover iniziarono a masticare la parola democrazia nel 1215, con l’adozione della Magna Charta, e più tardi, quando in tutta Europa andavano di moda le monarchie assolute e ovunque si imitava Louis Quatorze, le Roi Soleil, quello della famosa frase “l’état c’est moi”, dalle parti di Albione scoprivano l’importanza del parlamento e nel 1689 adottavano il Bill of rights che trasformava la corona inglese in una monarchia parlamentare riconoscendo una centralità delle assemblee nella guida politica e costituzionale dello stato.
La allora giovane regina, che in questi 70 anni ne ha viste di cotte e di crude e di tutti i colori, proseguì sino ad oggi il suo ruolo di custode delle trazioni istituzionali e di garante degli equilibri costituzionali e della unità della nazione, non dissimile dalla stessa sacralità con la quale regnò Elisabetta I, rivalità e guerra a Maria Stuart a parte.
A qualcuno potrebbe far ridere la adozione, ancora oggi, di quegli orpelli che a volte sembrano stucchevoli mascherate o barocchi rituali.
Ma quei riti, che si sono perpetuati nei secoli, sono serviti a mantenere intatta la forma costituzionale e l’assetto democratico di cui quel paese ha vissuto.
Quelle liturgie sono servite a dare alle istituzioni britanniche una autorevolezza tanto grande da entrare nelle coscienze delle popolazioni e rimanere intatta alle intemperie della storia che hanno devastato lo scorrere dei secoli.
La sacralità della corona si è estesa alla sacralità dello stato e nulla avrebbe mai permesso e mai permetterà di rovesciarla.
Dittature e dittaturelle, avventurose o meno che fossero, quali quella che hanno devastato i primi anni del Novecento, non avrebbero mai potuto, da quelle parti, non solo affermarsi ma addirittura trovare un minimo spazio tra l’attenzione dei britannici proprio per la concezione di sacralità della guida costituzionale del paese.
E invece al contrario, e a ben rifletterci, non sarà certo un caso se, dal dopoguerra ad oggi, proprio la socialdemocrazia europea ha avuto modo di affermarsi con stabilità e di incidere con maggiore profondità nella sua stagione di riforme per creare una società evoluta, moderna e progredita, da Gonzalez e Zapatero in Spagna, Di Rupo in Belgio, e ancora in Olanda, Danimarca, nei paesi Scandinavi di Olof Palme e infine proprio in Inghilterra con Tony Blair,  più in paesi a guida monarchica che in quelli repubblicani.
Quel senso delle istituzioni ha anche sviluppato una fortissima identità nazionale mescolata in una osmosi inscindibile con il rispetto dei suoi simboli in quanto identificativi della sacralità dello stato.
Non è un caso se da quelle parti ogni evento, formale o informale, istituzionale o ludico che sia, è concluso dall’inno nazionale e non è un caso che, ovunque ci si trovi, qualunque sia l’occasione o lo scenario, tutti, ma proprio tutti, dagli anziani ai maturi, dai giovani ai ragazzini, si mettono in piedi e cantano con compostezza e raccoglimento.
Si chiama solennità
Necessaria per mantenere alto il senso delle istituzioni e trasmetterne il rispetto tra le persone.
E ovunque in ogni stato, popolo, comunità, religione, la solennità è sempre stato il laticlavio con il quale ammantare di sacralità i simboli costituzionali in una sorta di iconolatria delle istituzioni.
Ma da loro è diverso, è più forte e di tale solennità Elisabetta II, in linea con i suoi predecessori, è stata una rigorosa, attenta, custode piena osservante delle tradizioni e dei dettati costituzionali del suo paese.
È per questo che è rispettata ma anche adorata dal suo popolo, è per questo che in Inghilterra non cantano l’inno solo allo stadio e nelle aule parlamentari non si sognano minimamente di introdurre scatolette di tonno o apriscatole da III C in gita scolastica.
Oggi Elisabetta II compie 96 anni.
God save the Queen.

(Video tratto dal seguente indirizzo: https://youtu.be/jn94s0eyRLo)

ERA IL 44 AVANTI CRISTO

e anche allora si chiamava Senato.
Solo che in quell’epoca era, ed era stato, il tempio nel quale venivano custodite, da oltre 500 anni, le tradizioni repubblicane e poco importa se spesso condite da intrighi e congiure.
È il fine che giustifica i mezzi, dirà molto tempo dopo Niccolò. E comunque quegli intrighi e quelle congiure erano ben distanti dalle patetiche scatolette di tonno o dalle magliette con scritte varie che gli indegni epigoni moderni di quei senatori sono soliti introdurre, di questi tempi, nelle aule parlamentari.
Erano più sanguinarie, ma in quell’epoca sangue e vita avevano valori ben diversi da oggi, ed erano sicuramente più dignitose.
E fu proprio con una di tali congiure che fu ucciso Gaio Giulio Cesare.
E dire che, tra i sogni di Calpurnia e il volo delle cicogne, di segnali che avrebbero dovuto dissuaderlo dall’andare al Senato ne aveva avuti.
Ma si sentiva forte.
Aveva il consenso del popolo e si sentiva inarrestabile. E così sfidò gli dei.
Ma la sua marcia verso il potere assoluto fu violentemente interrotta da chi non poteva tollerare il ritorno del volo delle aquile reali sui colli fatali di Roma dopo che, dalla cacciata di Tarquinio il superbo, 500 anni di gloriosa storia repubblicana si erano inanellati sulle sponde del Tevere.
Ma la storia è ingrata e quelli che sarebbero dovuti essere salvatori perirono sotto i ferri di chi, nel solco di Cesare, costruì i viali trionfali dell’impero.
Di loro c’è il ricordo dell’ignomia, di Cesare la memoria del Divo.
E poco importa se voleva trasformare una repubblica in monarchia assoluta e se era stato aduso a comprare voti con denari sonanti per la sua ascesa sulla scalinata delle arrampicate sociali.
Ave Cesare.

 

 

 

DIECI ANNI – 11.2.2012

Il suo nido fu la parrocchia, il suo vento furono i gospel e fu subito tra le nuvole, senza incertezze, senza esitazioni.

La gabbia venne dopo. Il business, il successo, il pop. “Devi sfondare nel mercato bianco,” le dissero.

Allora tra bianchi e neri c’erano ancora pesanti distinzioni e quel che facevano i secondi non era amato dai primi.

Furono subito record, rimasti sempre imbattuti. E poi venne la celluloide e come nei film accadde l’inimmaginabile. Nessuna come lei, ancora oggi.

Ma l’uccellino in gabbia sapeva che volare non era una malattia.

“Try it on my own” fu il simbolo di quell’epoca. “Provo a fare da sola, a modo mio”.

Al diavolo i discografici, al diavolo le giurie, al diavolo la critica. Rimasero lei, il suo pubblico e la sua musica. Ma l’acuto centrale di quella canzone e il salto di tre ottave con un nota sola furono il simbolo di nuove e più grandi conquiste e giunsero successi ancora più immensi.

E fece di tutto. Soul, blues, r&b classico e contemporaneo, gospel, la lirica con Pavarotti, cantò Gershwin, Bacharach, l’inno nazionale, il thema delle olimpiadi e dei mondiali di calcio, cantò per Mandela in Sudafrica, nei giorni della sua liberazione, quando per i neri era ancora difficile vivere e per i bianchi era troppo facile sparare. Ovunque vennero giù le tribune e gli stadi furono pieni per settimane intere.

L’uccellino era tornato a volare. Ma tra le nuvole ci si poteva perdere.

“Can i be me”, disse. Non si ritrovava più. Molte cose crollarono, quelle della vita semplice, la famiglia, l’affetto paterno, la mancanza di normalità, l’amore.

“I look to you” sembrò la rinascita e che tutto fosse passato.

Ma non era vero.

E così l’usignolo del mondo volò in cielo, per non tornare più.

Lasciò il mondo più povero e la musica, che in vita la temette d’esser vinta, ora senza di lei teme d’esser morta, per sempre.

Ciao Whitney.

(Video tratto dal seguente indirizzo: https://youtu.be/8v5AexgDmoA)