LUCIO GIUNIO BRUTO

Il signore ritratto nell’immagine è Lucio Giunio Bruto.
Non quello che la storia colloca tra gli infami ed i cattivi per aver ucciso Cesare (che poi è tutta da vedere sul chi siano davvero i cattivi), ma un signore vissuto diversi secoli prima, forse più protagonista del suo più noto epigono.
Siamo nel 500 e rotti avanti Cristo e su Roma regna un tipaccio, di razza etrusca, chiamato Tarquinio.
È il settimo re di Roma, ma anche il peggiore. Arrogante, presuntuoso, cattivo violento, crudele accompagnando queste infamie, nelle quali eccelleva, in una totale mediocrità delle restanti pieghe della sua personalità.
Era chiamato Tarquinio il Superbo.
I suoi figli erano peggio di lui, avendo ereditato dal padre tutti i difetti e nessuno dei labili pregi, ammesso che ne avesse qualcuno.
Uno di loro, Sesto Tarquinio, pretese di possedere Lucrezia, una nobildonna moglie di Collatino.
Lucrezia, vinta dal disonore si suicidò.
Tito Livio racconta che successe davanti a Bruto, al marito Collatino e al padre di lei Spurio Lucrezio.
L’antenato del figlio di Cesare, indignato dell’evento, estrasse il pugnale dalla ferita mortale e pronunciò un solenne giuramento:
«Su questo sangue, purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né alcun altro possano regnare a Roma.»
E così fu.
Trasportarono il corpo della donna nella piazza principale della città di Collatia, dove la donna si era suicidata, attirando l’attenzione della folla, che dopo aver saputo dell’accaduto si indignò per la protervia di Sesto Tarquinio.
Molti dei giovani lì presenti si offrirono volontari per condurre una guerra contro i Tarquini e riconobbero in Bruto il loro comandante.
Si diressero a Roma e anche qui Bruto conquistò il consenso del popolo.
Partì quindi per Ardea, dove il re era accampato, per indurre l’esercito a schierarsi dalla sua parte.
Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò a Tarquinio il Superbo questi, allarmato dal pericolo inatteso, partì per Roma per reprimere la rivolta.
Bruto, allora, informato di questa azione diversiva, per evitare l’incontro, accelerò i suoi movimenti e raggiunse l’accampamento regio ad Ardea dove fu accolto con entusiasmo da tutti i soldati.
Bruto ebbe vita facile cavalcando il malcontento diffuso tra soldati e popolazione esasperati dalle angherie del tiranno.
Alla guida di quello che ormai era divenuto il suo esercito, cacciò Tarquinio ed i suoi figli sbarrandogli in faccia le porte di Roma e comunicandogli la condanna all’esilio.
Furono convocati i comizi centuriati, che lo elessero assieme a Lucio Tarquinio Collatino i primi due consoli della città.
Bruto gettò le basi per il nuovo governo dell’urbe.
Il popolo giurò solennemente, in una grande assemblea pubblica, che non avrebbe permesso più a nessuno di diventare re.
Furono nominati, tra i personaggi più in vista dell’ordine equestre, nuovi senatori ampliando l’assise, ridotta ai minimi termini dalle continue esecuzioni dell’ultimo tiranno, a trecento senatori in totale.
Introdusse l’uso di convocare per le sedute del senato i padri ed i coscritti favorendo così il riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale.
Nacque così una “cosa” nuova.
La chiamarono “cosa pubblica” in latino “Res Publica”.
Dopo circa 200 anni i simboli regali, che troneggiavano sui 7 colli, furono ammainati e sul colle Palatino furono innalzati i vessilli della Repubblica.
Governò Roma per 500 anni.

ERA IL 44 AVANTI CRISTO

e anche allora si chiamava Senato.
Solo che in quell’epoca era, ed era stato, il tempio nel quale venivano custodite, da oltre 500 anni, le tradizioni repubblicane e poco importa se spesso condite da intrighi e congiure.
È il fine che giustifica i mezzi, dirà molto tempo dopo Niccolò. E comunque quegli intrighi e quelle congiure erano ben distanti dalle patetiche scatolette di tonno o dalle magliette con scritte varie che gli indegni epigoni moderni di quei senatori sono soliti introdurre, di questi tempi, nelle aule parlamentari.
Erano più sanguinarie, ma in quell’epoca sangue e vita avevano valori ben diversi da oggi, ed erano sicuramente più dignitose.
E fu proprio con una di tali congiure che fu ucciso Gaio Giulio Cesare.
E dire che, tra i sogni di Calpurnia e il volo delle cicogne, di segnali che avrebbero dovuto dissuaderlo dall’andare al Senato ne aveva avuti.
Ma si sentiva forte.
Aveva il consenso del popolo e si sentiva inarrestabile. E così sfidò gli dei.
Ma la sua marcia verso il potere assoluto fu violentemente interrotta da chi non poteva tollerare il ritorno del volo delle aquile reali sui colli fatali di Roma dopo che, dalla cacciata di Tarquinio il superbo, 500 anni di gloriosa storia repubblicana si erano inanellati sulle sponde del Tevere.
Ma la storia è ingrata e quelli che sarebbero dovuti essere salvatori perirono sotto i ferri di chi, nel solco di Cesare, costruì i viali trionfali dell’impero.
Di loro c’è il ricordo dell’ignomia, di Cesare la memoria del Divo.
E poco importa se voleva trasformare una repubblica in monarchia assoluta e se era stato aduso a comprare voti con denari sonanti per la sua ascesa sulla scalinata delle arrampicate sociali.
Ave Cesare.