R.S.M.

Fu uno scalpellino dalmata, fuggito dall’isola di Arbe per salvarsi dalle persecuzioni dei cristiani ad opera dell’Imperatore Diocleziano, che fondò una comunità sulla vetta aspra di quel monte.
Era il 3 settembre del 301 d.C. e da quel giorno quel piccolo borgo iniziò il suo lungo e singolare cammino nel tempo.
“Relinquo vos liberos ab utroque homine” disse il tagliapietre quando, ormai vecchio, si stava apprestando ad attraversare lo Stige: “Vi lascio liberi da entrambi gli uomini”.
Quel testamento spirituale, che poteva ai più apparire banale, fu il marchio che caratterizzò i suoi circa duemila anni di storia.
Più volte sia il Papa che l’Imperatore, i due uomini, cercarono di soffocarne l’identità ma invano.
Eppure era una comunità così piccola che non le possenti armate di quei tempi, ma un semplice battaglione sarebbe stato sufficiente a ridurre in cattività.
“Nemini teneri” fu il suo motto: “Non dipendere da nessuno”.
Scorsero i secoli e quella piccola e tenace comunità si diede i primi organi di autogoverno.
Era l’Arengo, la assemblea dei capifamiglia.
Non ebbe Re, tantomeno Imperatori. Fu il primo rudimento di uno Stato Parlamentare.
La guidavano due consoli, oggi chiamati “capitani” eletti dall’Arengo solo ogni sei mesi.
Cominciarono sin da allora a fare capolino nella sua storia, e nella storia dell’umanità, due concetti che sembrano molto moderni ma che, in realtà, furono scalfiti su quel monte molti secoli prima che facessero conoscenza con il resto del pianeta: democrazia e repubblica.
Non passò molto tempo dalla sua fondazione prima che quella piccola comunità divenisse uno Stato.
Piccolino, quasi insignificante sulla mappa del pianeta, ma talmente forte da essere riuscito, sino ad oggi, a mantenere la sua indipendenza e a diventare, sempre arroccato sulla vetta di quel monte, il più celebre del mondo.
Quel monte si chiama il Titano, e quello scalpellino che lo fondò si chiamava Marino, divenuto poi santo e voi conoscete quel piccolo Stato come la Serenissima Repubblica di San Marino, la più antica del mondo.
Il 17 novembre del 1956 vi nacque un certo Massimo Carugno che voi dovreste conoscere bene.

SECONDINO TRANQUILLI

Scrittore, saggista, letterato di grande spessore e profondità culturale sì da essere candidato per ben dieci volta al Nobel. Fu anche un pensatore politico di grande rilievo e parlamentare nella Costituente.
Il suo percorso ideologico è un cammino che dovrebbe essere da insegnamento per le nuove generazioni della politica italian.
Fu uno degli ispiratori della nascita dell’area culturale e politica del socialismo italiano.
Poi nel 1921, a Livorno, seguì Bordiga e divenne, nel PCI, l’uomo degli esteri, approdando a Mosca dove coltivò i rapporti con la nomenklatura sovietica.
Nel 1930 ampie riflessioni sulla realtà comunista lo riportarono a casa, nella famiglia socialista.
Nel 1947 all’interno del PSI abbracciò l’autonomismo sfidando Nenni e schierandosi contro la scelta filocomunista del “fronte popolare”.
Nei suoi ultimi anni sposò le idee socialdemocratiche saragattiane acuendo la distanza che lo divideva dal mondo comunista che lo portò a vederlo incompatibile con il pensiero socialista.
Di lui ci resta l’affresco meraviglioso delle terre d’Abruzzo nel quale narra la straordinaria umanità della sua gente aspramente condita dalla miseria nella quale viveva.
Ma il saldo del destino fu ingrato e, nell’ultimo atto politico della sua vita, Pescina, dove era nato e alla quale aveva donato la ricchezza delle sue narrazioni, gli lasciò una misera  manciata di voti.
Era il 1953 e non fu eletto deputato nel P.S.D.I. di Saragat.
Quel ripudio della sua gente lo allontanò definitivamente dalla politica attiva.
Muore il 22 agosto del 1978 a Ginevra.
Voi lo conoscete con il nome di Ignazio Silone.

LUCIO GIUNIO BRUTO

Il signore ritratto nell’immagine è Lucio Giunio Bruto.
Non quello che la storia colloca tra gli infami ed i cattivi per aver ucciso Cesare (che poi è tutta da vedere sul chi siano davvero i cattivi), ma un signore vissuto diversi secoli prima, forse più protagonista del suo più noto epigono.
Siamo nel 500 e rotti avanti Cristo e su Roma regna un tipaccio, di razza etrusca, chiamato Tarquinio.
È il settimo re di Roma, ma anche il peggiore. Arrogante, presuntuoso, cattivo violento, crudele accompagnando queste infamie, nelle quali eccelleva, in una totale mediocrità delle restanti pieghe della sua personalità.
Era chiamato Tarquinio il Superbo.
I suoi figli erano peggio di lui, avendo ereditato dal padre tutti i difetti e nessuno dei labili pregi, ammesso che ne avesse qualcuno.
Uno di loro, Sesto Tarquinio, pretese di possedere Lucrezia, una nobildonna moglie di Collatino.
Lucrezia, vinta dal disonore si suicidò.
Tito Livio racconta che successe davanti a Bruto, al marito Collatino e al padre di lei Spurio Lucrezio.
L’antenato del figlio di Cesare, indignato dell’evento, estrasse il pugnale dalla ferita mortale e pronunciò un solenne giuramento:
«Su questo sangue, purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né alcun altro possano regnare a Roma.»
E così fu.
Trasportarono il corpo della donna nella piazza principale della città di Collatia, dove la donna si era suicidata, attirando l’attenzione della folla, che dopo aver saputo dell’accaduto si indignò per la protervia di Sesto Tarquinio.
Molti dei giovani lì presenti si offrirono volontari per condurre una guerra contro i Tarquini e riconobbero in Bruto il loro comandante.
Si diressero a Roma e anche qui Bruto conquistò il consenso del popolo.
Partì quindi per Ardea, dove il re era accampato, per indurre l’esercito a schierarsi dalla sua parte.
Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò a Tarquinio il Superbo questi, allarmato dal pericolo inatteso, partì per Roma per reprimere la rivolta.
Bruto, allora, informato di questa azione diversiva, per evitare l’incontro, accelerò i suoi movimenti e raggiunse l’accampamento regio ad Ardea dove fu accolto con entusiasmo da tutti i soldati.
Bruto ebbe vita facile cavalcando il malcontento diffuso tra soldati e popolazione esasperati dalle angherie del tiranno.
Alla guida di quello che ormai era divenuto il suo esercito, cacciò Tarquinio ed i suoi figli sbarrandogli in faccia le porte di Roma e comunicandogli la condanna all’esilio.
Furono convocati i comizi centuriati, che lo elessero assieme a Lucio Tarquinio Collatino i primi due consoli della città.
Bruto gettò le basi per il nuovo governo dell’urbe.
Il popolo giurò solennemente, in una grande assemblea pubblica, che non avrebbe permesso più a nessuno di diventare re.
Furono nominati, tra i personaggi più in vista dell’ordine equestre, nuovi senatori ampliando l’assise, ridotta ai minimi termini dalle continue esecuzioni dell’ultimo tiranno, a trecento senatori in totale.
Introdusse l’uso di convocare per le sedute del senato i padri ed i coscritti favorendo così il riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale.
Nacque così una “cosa” nuova.
La chiamarono “cosa pubblica” in latino “Res Publica”.
Dopo circa 200 anni i simboli regali, che troneggiavano sui 7 colli, furono ammainati e sul colle Palatino furono innalzati i vessilli della Repubblica.
Governò Roma per 500 anni.

DIVORZIO

Trentatre milioni di italiani sui trentasette milioni di aventi diritto al voto parteciparono al referendum sull’abrogazione della legge institutiva del divorzio.
Entrata in vigore nel 1970, la legge aveva introdotto anche in Italia l’istituto dello scioglimento del matrimonio causando controversie e opposizioni, in particolare tra le aree culturali e politiche che si muovevano all’interno del mondo cattolico.
Al momento della sua promulgazione, il fronte sociale e politico era fortemente diviso sull’argomento.
Le forze socialiste, laiche e liberali si erano fatte promotrici dell’iniziativa parlamentare (la legge nacque, infatti, a opera del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini).
Forti differenze erano comunque presenti nel mondo della sinistra tra le avanguardie radicali e libertarie (femministe, Partito Radicale, Partito Socialista ) e parti consistenti del mondo comunista che per la sua impronta ortodossa, dovuta dalla forte vicinanza con la rigidità e l’intransigenza sovietica, mal digeriva processi di innovazione, trasformazione e liberazione sociale, e indussero il PCI ad orientarsi verso una trattativa con la DC.
Il comitato promotore del referendum era guidato da Gabrio Lombardi e schierava nella campagna contro il divorzio diversi intellettuali e politici, tra i quali Salvatore Satta, Sergio Cotta, Augusto del Noce, Carlo Felice Manara, Enrico Medi, Giorgio La Pira, Alberto Trabucchi, e Ugo Sciascia.
La Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano si erano opposti alla legge.
Parte del mondo culturale cattolico, invece, si era comunque dichiarato favorevole, come le ACLI o il movimento dei cattolici democratici di Raniero La Valle, mentre il resto dei movimenti cattolici come Comunione e Liberazione erano rimasti completamente fedeli alle indicazioni della CEI.
Ma l’Italia, sull’onda della grande rivoluzione culturale, progressista e libertaria che si era avviata con il ‘68, viaggiava ormai a vele spiegate verso un inarrestabile processo di trasformazione della società in senso riformista.
E quindi, nonostante le forti pressioni del mondo cattolico e le freddezze dell’ortodossia comunista, nei due giorni di voto, del 12 e 13 maggio 1974. il 59,1% dei votanti si dichiarò contrario all’abolizione della legge.
Da quel giorno l’Italia si allineò agli altri paesi occidentali in particolare a quelli governati dalle socialdemocrazie riformiste.

Il 7 MAGGIO

Oggi del 1919 nasceva, a Los Toldos, María Eva Duarte.
Era di umili origini, ultima di cinque figli. Visse sino all’età dell’adolescenza in quel piccolo centro a circa 300 km. dalla capitale.
Qui vi si trasferì a 15 anni, dove perseguì una carriera da attrice corredandola sia di interpretazioni da palcoscenico, sia di partecipazioni in film e trasmissioni radiofoniche.
La sua vita fu molto controversa e molto discussa. Luci ed ombre sono state mescolate di continuo ma senza impedire che la sua storia si trasformasse in leggenda.
Così come Aspasia di Mileto, alla quale attribuirono origini peccaminose, sostenendo che fosse stata la tenutaria di un postribolo, Eva fu spesso additata per la particolare disinvoltura e spregiudicatezza con la quale percorse in maniera rampante i primi anni della sua carriera nel mondo dello spettacolo..
Spregiudicatezza della quale furono tacciate anche, e soprattutto, quando entrambe diventarono compagne di uomini potenti che incontrarono in divisa alla guida di un esercito e trasformarono in uomini di stato.
Eva, a fianco del suo uomo, recitò per diverso tempo il ruolo di ambasciatrice nazionale non sempre ben accetta, però, specie nelle corti e nei palazzi presidenziali degli stati europei.
Così come Aspasia che, trasformando la sua casa in uno dei più importanti cenacoli nel quale accolse i personaggi più significativi dell’arte, della letteratura, della filosofia dell’epoca, diede a Pericle lo spessore culturale per diventare uno dei governanti più illuminati della storia ateniese e greca, Eva Duarte, memore ed ispirata dalle sue origini umili, diede al suo compagno una visione politica rivolta verso i deboli e gli oppressi della società che spesso contrastava in maniera stridente con l’approccio nazionalista e dittatoriale del suo regime.
La vita e le contraddizioni di Eva sono sotto gli occhi di tutti e non possono essere raccontate qui.
Ma quel che la storia ricorda è che fu amata tantissimo dal suo popolo tanto da offuscare la figura del suo uomo.
La sua fama, e l’amore quasi unanime della sua gente, fu consacrata in maniera immemorabile quando, nel 1952, morì, a soli 33 anni, di un male inesorabile. Ci fu la mobilitazione di un intero popolo. Per renderle ossequio ci furono code di chilometri e ai suoi funerali parteciparono più di due milioni di persone.
Fu una vicenda che impressionò il mondo intero. E anche dopo la sua scomparsa la devozione per lei divenne un culto. Fu esposta in un feretro di cristallo nella sede del sindacato dove fu oggetto di continua venerazione per diversi anni.
La sua salma imbalsamata fu poi trafugata dai successori, ed avversari politici, del marito, nel fondato timore che il suo culto potesse pericolosamente perpetuarsi, e fu tenuta nascosta a lungo. Per un certo periodo il tenente colonnello Moori Koenig, capo dei servizi segreti, mise il feretro di cristallo in un furgone, dove lo lasciò per diversi mesi. Le spoglie vagarono in numerosi edifici militari, sempre sotto sorveglianza protetta e nascosta. Quando il colonnello Koenig si rese conto che non poteva continuare a spostare la salma da un luogo all’altro, né poteva distruggerla (avrebbe causato una rivolta), la trasportò nel suo ufficio, nella sede centrale del servizio informazioni, dove rimase fino al 1957. Si dice che Koenig, affascinato dalla perfezione del lavoro anatomico effettuato sul corpo di Eva, si pavoneggiasse mostrandola ai suoi visitatori. Poi fu portata a spasso per il mondo (si dice che per qualche tempo fosse anche a Milano in una tomba intestata al nome fittizio di Maria Maggi, vedova de Magistris).
Solo nel al 1974 fu riportata in patria dove, sebbene fossero trascorsi più di 20 anni, fu accolta da un oceano di sostenitori.
Ora riposa nella cappella di famiglia del cimitero della Recoleta interrata in un vero e proprio bunker, protetto da una serie di porte battenti, in una sorta di dedalo a confronto del quale le piramidi sono un gioco.
Al mondo è conosciuta, ed ancora oggi è ricordata, con il nomignolo affettuoso che le diede la sua gente EVITA.

(il video è tratto dal seguente indirizzo you tube: https://youtu.be/KD_1Z8iUDho)

LE TRIANGOLAZIONI DEL PENSIERO

Il 5 maggio del 1821 muore a S.Elena Napoleone. Lo stesso giorno di tre anni prima, nel 1818, nasce a Treviri Karl Marx.

A parte tale coincidenza, ai più sembra che tra i due non vi sia alcun punto di contatto.  Né storica, né culturale, tantomeno ideologica.

È chiaro che addentrarsi in una disamina delle enormi complessità che si celano nelle pieghe delle vite del fondatore dell’impero e del padre del comunismo è un lavoro immane, a fare il quale non sono neanche certo di essere all’altezza. Cionondimeno qualche piccolo sfizio, nel lanciarci in spericolate acrobazie sul trapezio della cultura sperimentale, possiamo togliercelo.

Non è vero che i due ragazzi non ebbero un qualcosa che li avvicinasse, un fil rouge che in qualche modo rappresentasse un piccolo legame che li mettesse in contatto.

Il suo nome era Giorgio Guglielmo Federico Hegel, nato a Stoccarda il 27 agosto 1770, padre dell’idealismo, fonte di pensiero dal quale è nata tutta la filosofia moderna sia di destra che di sinistra dalla quale, a sua volta, sono state generate le principali ideologie che hanno governato la politica del XX secolo.

Insomma il più grande filosofo dell’era moderna.

Hegel su Napoleone si esprimeva così: “I professori tedeschi di diritto pubblico non tralasciano di scrivere una quantità di opere sul concetto di sovranità e sul significato degli atti della Confederazione (del Reno). Ma il più grande professore di diritto pubblico risiede a Parigi”.

La più importante opera di Hegel, la “La feomenologia dello spirito”, ha al suo centro l’imperatore di Ajaccio. L’opera Hegeliana, che viene universalmente considerata la “bibbia” di tutto quel che venne dopo, è totalmente ispirata alla figura di uomo di stato di Napoleone. La leggenda vuole sia stata completata dal filosofo proprio la notte della battaglia di Jena.

Vi chiederete come si arriva da tutto questo al padre del Comunismo.

Ci arriviamo.

Il capitolo centrale della summa Hegeliana è centrato sul superamento, da parte della rivoluzione francese, del vecchio ordine e sul conseguente superamento del sistema rivoluzionario da parte del nuovo ordine napoleonico.

Insomma una triangolazione a tutti gli effetti.

Attraverso il terrore rivoluzionario, l’uomo raggiunge finalmente la sintesi finale che lo appaga definitivamente.

Orbene tale parte della “Fenomenologia” ebbe anche tanta influenza sul giovane Marx il quale, inutile a dirlo, era nei primi anni un Hegeliano convinto. Successivamente pur aprendo il suo pensiero ad una forma di criticismo nei confronti del padre dell’idealismo, riguardo per esempio al concetto di “religione della proprietà privata”, non rinuncia a riconoscerne grandi meriti.

Se nel complesso la critica marxiana verte soprattutto sul rapporto tra società civile e Stato, il merito di Hegel, secondo Marx, è quello di avere concesso spazio alla società civile, differenziandola dalla società politica che si incarnava nello Stato.

Non vi sfuggirà da queste poche e povere righe che c’è tanto Hegel in Marx, ma c’è anche tanto Napoleone in Hegel.

Ed ecco che quel fil rouge di cui vi parlavo vien fuori alla distanza e partendo da un dito dell’Empereur, fa un doppio giro attorno alla vita di Hegel, per finire nella mano di Karletto.

C’est la vie.

 

IL CIGNO DI UTRECHT

per l’eleganza con la quale si muoveva in campo in tutte le sue giocate.
Così fu definito Marco Van Basten, attaccante olandese che dalla fine degli anni ’80 ha imperversato, per tutto il decennio successivo, con le sue fantastiche imprese nel mondo del calcio.
Ha vinto tutto.
Tutto quello che poteva essere umanamente vinto con la sua squadra di club e quasi tutto con la nazionale olandese.
È considerato uno dei giocatori più forti della storia del calcio, per molti il centravanti più forte, sicuramente il più elegante.
Ma non è per le sue imprese pedatorie che oggi lo rammentiamo.
“Troppe partite, i giocatori giocano troppo e alla lunga non reggeranno fisicamente”.
Questa dichiarazione, resa qualche anno fa, quando era a capo del Dipartimento di sviluppo tecnico della Fifa, scatenò un putiferio e gli costò l’incarico.
Erano gli anni in cui l’avidità dei presidenti dei club, ma anche delle organizzazioni internazionali, muovevano per una moltiplicazione della gare per incassare maggiori diritti televisivi e nessuno doveva ostacolare tale progetto.
Quel processo che portò, come succede oggi, a giocare due partite a settimana, ha subito l’effetto prodromico delle dichiarazioni di Van Basten.
Per chi si interessa di calcio sono note le incredibili girandole di infortuni che investono attualmente il mondo del calcio.
Tra l’altro senza eventi traumatici evidenti o rilevanti, giocatori che si fanno male, anche gravemente, corricchiando o in allenamento.
Questo riferimento al rettangolo di gioco ci aiuta ad introdurre un tema ben più vasto che si riflette in comparti ben meno ludici della realtà sociale.
La inarrestabilità del business-show spiega i suoi effetti anche altrove.
Nel mondo del lavoro turni più massacranti per maestranze e dipendenti.
Fabbriche sempre aperte con turni quasi mai gratificati. Negozi aperti la domenica senza ferie o straordinari.
Dipendenti pubblici con il lavoro da casa che si somma a quello d’ufficio.
Ovunque c’è un padrone che vuole guadagnare di più ma pagare di meno.
Ma anche negli investimenti del pubblico e del para-pubblico.
Si chiudono, ospedali, presidi medici, tribunali, uffici del catasto, camere di commercio, sportelli di servizi, tratte ferroviarie o linee di autobus, in una drammatica corsa all’accentramento perchè rami secchi, non produttivi, con poche utenze, dimenticando che certi servizi non sono aziende, legate alla logica del profitto, ma presidi destinati a servire bisogni, in una Italia che è ancora delle municipalità, dei comuni, dei campanili, sparsi tra la dorsale appenninica e le valli alpine, tra le basse padane e le aree interne delle grandi isole. Vi vivono la stragrande parte degli italiani, quasi 50 milioni.
Possono davvero i soldi, la ricerca esasperata del guadagno stravolgere le regole immodificabili della vita?
Possono i soldi cancellare le regole di tenuta fisica di un giocatore, la insopportabilità della fatica di un operaio, di un impiegato, di una commessa?
Può il denaro farci dimenticare che anche il paesino di “roccacannuccia” ha bisogno, della strada, che vi arrivi e parta un autobus, di una guardia medica o di un posto di polizia, perchè il centro più vicino è a 40 km, ma un’ora di viaggio su una strada impossibile?
Se ci sono ancora oggi oppressori e oppressi a cosa sono servite le rivoluzioni per le quali tanto abbiamo sudato e faticato sui libri di scuola?
Questo rapporto dell’uomo così servile dinanzi al dio denaro c’è sempre stato?
Questa infernale macchina del guadagno è sempre esistita?
Dobbiamo forse tornare a una vita primitiva per riscoprire certi valori?
L’angosciante sensazione che nulla è mutato e nulla muterà a volte opprime.
A volte invece con piccoli movimenti riusciamo ad adattarci tra gli angusti e laceranti spigoli della caverna dell’esistenza illudendoci di stare comodi. Si chiama rassegnazione.

NE SONO 70 ED È UN GIUBILEO DI PLATINO

Era il 6 febbraio 1952 quando salì al trono, alla morte del padre, anche se fu incoronata il 2 giugno del 1953.
Fu un gioco del destino che si manifestò nelle vesti di una sottana made in Usa e borghese quanto basta per allontanare suo zio Edoardo VIII dalla corona inglese.
E fu così che giovanissima, quasi una ragazzina, sedette sul trono dello stato, tra quelli contemporanei, più antico e prestigioso del mondo.
Sulle bianche scogliere di Dover iniziarono a masticare la parola democrazia nel 1215, con l’adozione della Magna Charta, e più tardi, quando in tutta Europa andavano di moda le monarchie assolute e ovunque si imitava Louis Quatorze, le Roi Soleil, quello della famosa frase “l’état c’est moi”, dalle parti di Albione scoprivano l’importanza del parlamento e nel 1689 adottavano il Bill of rights che trasformava la corona inglese in una monarchia parlamentare riconoscendo una centralità delle assemblee nella guida politica e costituzionale dello stato.
La allora giovane regina, che in questi 70 anni ne ha viste di cotte e di crude e di tutti i colori, proseguì sino ad oggi il suo ruolo di custode delle trazioni istituzionali e di garante degli equilibri costituzionali e della unità della nazione, non dissimile dalla stessa sacralità con la quale regnò Elisabetta I, rivalità e guerra a Maria Stuart a parte.
A qualcuno potrebbe far ridere la adozione, ancora oggi, di quegli orpelli che a volte sembrano stucchevoli mascherate o barocchi rituali.
Ma quei riti, che si sono perpetuati nei secoli, sono serviti a mantenere intatta la forma costituzionale e l’assetto democratico di cui quel paese ha vissuto.
Quelle liturgie sono servite a dare alle istituzioni britanniche una autorevolezza tanto grande da entrare nelle coscienze delle popolazioni e rimanere intatta alle intemperie della storia che hanno devastato lo scorrere dei secoli.
La sacralità della corona si è estesa alla sacralità dello stato e nulla avrebbe mai permesso e mai permetterà di rovesciarla.
Dittature e dittaturelle, avventurose o meno che fossero, quali quella che hanno devastato i primi anni del Novecento, non avrebbero mai potuto, da quelle parti, non solo affermarsi ma addirittura trovare un minimo spazio tra l’attenzione dei britannici proprio per la concezione di sacralità della guida costituzionale del paese.
E invece al contrario, e a ben rifletterci, non sarà certo un caso se, dal dopoguerra ad oggi, proprio la socialdemocrazia europea ha avuto modo di affermarsi con stabilità e di incidere con maggiore profondità nella sua stagione di riforme per creare una società evoluta, moderna e progredita, da Gonzalez e Zapatero in Spagna, Di Rupo in Belgio, e ancora in Olanda, Danimarca, nei paesi Scandinavi di Olof Palme e infine proprio in Inghilterra con Tony Blair,  più in paesi a guida monarchica che in quelli repubblicani.
Quel senso delle istituzioni ha anche sviluppato una fortissima identità nazionale mescolata in una osmosi inscindibile con il rispetto dei suoi simboli in quanto identificativi della sacralità dello stato.
Non è un caso se da quelle parti ogni evento, formale o informale, istituzionale o ludico che sia, è concluso dall’inno nazionale e non è un caso che, ovunque ci si trovi, qualunque sia l’occasione o lo scenario, tutti, ma proprio tutti, dagli anziani ai maturi, dai giovani ai ragazzini, si mettono in piedi e cantano con compostezza e raccoglimento.
Si chiama solennità
Necessaria per mantenere alto il senso delle istituzioni e trasmetterne il rispetto tra le persone.
E ovunque in ogni stato, popolo, comunità, religione, la solennità è sempre stato il laticlavio con il quale ammantare di sacralità i simboli costituzionali in una sorta di iconolatria delle istituzioni.
Ma da loro è diverso, è più forte e di tale solennità Elisabetta II, in linea con i suoi predecessori, è stata una rigorosa, attenta, custode piena osservante delle tradizioni e dei dettati costituzionali del suo paese.
È per questo che è rispettata ma anche adorata dal suo popolo, è per questo che in Inghilterra non cantano l’inno solo allo stadio e nelle aule parlamentari non si sognano minimamente di introdurre scatolette di tonno o apriscatole da III C in gita scolastica.
Oggi Elisabetta II compie 96 anni.
God save the Queen.

(Video tratto dal seguente indirizzo: https://youtu.be/jn94s0eyRLo)